Mi sono convinto che il finanziamento pubblico ai Partiti va tolto!

Mi sono convinto che il finanziamento pubblico ai Partiti va tolto!

Perché credo che il finanziamento pubblico ai Partiti vada tolto:

scheda-elettorale

Circa un anno fa, appena scoppiato il caso Lusi, un amico mi disse: “il finanziamento pubblico ai partiti va tolto senza se e senza ma”. Tentai di spiegare che la politica ha un costo, che i partiti hanno dipendenti da pagare, che è meglio il finanziamento pubblico piuttosto che quello proveniente da aziende e gruppi di potere. Lui rimase della stessa idea e mi rispose usando una metafora: “per i partiti, il finanziamento pubblico ormai è come il vino per un alcolista, se vuoi salvare un alcolista il vino lo devi togliere completamente, lo devi togliere addirittura dagli ingredienti dell’arrosto”.

Riflettendo con razionalità sulla questione, in questi mesi, ero sinceramente convinto che la soluzione scelta dal Partito Democratico, e approvata lo scorso maggio dal Parlamento, fosse quella giusta, la migliore. Dimezzare il finanziamento pubblico portandolo a soli 0,50 euro per abitante all’anno, è stata una decisione coraggiosa e importante, che ha ridotto la spesa dello Stato per il rimborso delle spese elettorali delle elezioni politiche a 31 milioni di euro (sul web girano alcune tabelle diverse, perché riportano la cifra totale che spetterebbe a ciascun partito se la legislatura durasse tutti i 5 anni). Il mio ragionamento era il seguente: dopo la modifica di quest’anno, come detto prima, il costo per lo Stato si aggirerebbe su circa 1,50 euro per ogni cittadino per anno (considerando 0,50 euro per le politiche, 0,50 euro per le europee e 0,50 euro per le elezioni regionali), per un totale di circa 90 milioni di euro l’anno.

Ora, però, mi sono reso conto che sono necessarie misure ancor più radicali.

A guardare gli altri Paesi occidentali, attestiamo che, è vero, in alcuni di essi il finanziamento pubblico non è previsto e in altri prevede stanziamenti inferiori di risorse, ma va anche detto che, negli stessi Paesi, le spese per le campagne elettorali e per i partiti non sono affatto inferiori a quelle italiane. Quindi, la domanda spontanea è: “Chi paga?”

Prendiamo ad esempio le spese  per la campagna presidenziale degli Stati Uniti: le cifre ufficiali parlano di oltre 6 miliardi di dollari. Se spalmiamo il costo sul numero degli abitanti, per una legislatura che dura 4 anni (non 5 come da noi), è facile calcolare che la campagna costa, di fatto, ad ogni cittadino americano 5 dollari l’anno. Lo dico perché, com’è ovvio, nessuna azienda finanzierebbe la campagna di alcun presidente se non avesse poi possibilità di trarne vantaggi (anche leciti, naturalmente), scaricandone i costi sulle proprie merci o servizi e, in ultima analisi, sul consumatore.

Per portare l’esempio in Italia e rendersi davvero conto di quanto sia delicato il rapporto fra partiti, candidati, costo delle campagne elettorali e costi della politica basta pensare ad alcune attività legislative del recente passato. Le lenzuolate di Pierluigi Bersani del 2006-2007, ad esempio, hanno determinato in questi anni un risparmio di ben 15 euro per abitante ogni anno. Molti miliardi di euro in totale. Com’è facile capire, nel 2006 non avremmo potuto approvare questi provvedimenti se il PD o i suoi parlamentari avessero beneficiato di finanziamenti non pubblici ma provenienti, per esempio, da case farmaceutiche, aziende telefoniche o energetiche e così via, esattamente come si fa negli altri paesi occidentali di cui parlavamo prima.

Ecco perché ho sostenuto che, in ogni caso, il sistema vigente oggi in Italia, dopo il dimezzamento, sarebbe equilibrato. Il problema italiano è l’uso che viene fatto di quel finanziamento, poco ottimizzato e con un mix che non esclude comunque entrate da privati, che rende comunque il sistema troppo costoso e poco trasparente. Un esempio ne è la faccenda di Livia Turco, di questi giorni, come è possibile pensare che qualcuno possa immaginare o sperare che i soldi del finanziamento pubblico vengano usati per assumere del personale o per fare da ammortizzatore sociale a degli ex parlamentari? Questo fatto è emblematico e fa capire che quanto ammalato sia il sistema.

Così torniamo alla metafora, un po’ forte ma chiara, usata dal mio amico. È arrivato il momento di eliminare ogni traccia di vino, per la salute della politica italiana.

E, per evitare che i parlamentari e i politici restino legati a lobby o condizionati da interessi particolari, come purtroppo avviene a volte all’estero, la risposta non è il modello Grillo-Casaleggio.

Serve che lo stipendio del parlamentare non superi i 3.500 euro netti mensili, che i finanziamenti privati delle campagne elettorali o ai partiti non superino la soglia dei 100 euro a persona/azienda, che i collaboratori (cosiddetti portaborse) siano a carico della Camera di riferimento e non del parlamentare, così come le spese di spostamento da e per Roma e per l’alloggio, che devono essere rendicontate, come avviene per i lavoratori di qualsiasi impresa pubblica o privata. Così come andrebbe previsto un rimborso delle spese elettorali direttamente al parlamentare fino ad un massimo di 30.000 euro per ogni tornata elettorale (anche queste, completamente certificate e  rendicontate, e rapportate al reddito del candidato). Alla base, poi, è indispensabile un sistema elettorale diverso, attraverso il quale i cittadini possano veramente eleggere e scegliere i propri rappresentanti.

Queste misure permetterebbero un risparmio di circa 100 milioni di euro l’anno e i cittadini avrebbero la certezza di essere rappresentati da persone serie e normali e innanzitutto libere, non da privilegiati al servizio di lobby, movimenti, sette o partiti personali.

Marco Stradiotto

 

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